Non ritenne un rapimento
Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Queste sono le parole che l’apostolo Paolo ha rilanciato alla comunità di Efeso per parlare di Gesù. Egli non ritenne un privilegio l’essere come Dio, tuttavia il termine greco per privilegio è arpagmòn, che significa letteralmente, rapimento. Pavel Florenskij ne farà una attenta esegesi in quanto considerare la condizione divina un rapimento o anche solo un privilegio, implica alcune domande. Infatti, nel confronto esegetico, riscopriamo che Gesù, nella condizione divina, non ha ritenuto un rapimento essere come Dio, come pensano tutte le altre creature che, appunto, non sono il Creatore, ma ha assunto la condizione di servo. Se il nostro cammino spirituale o ascetico o devozionista, spesso, si concentra su una salita al Cielo, su una scalata con le nostre stesse forze verso il Cielo, Gesù ha fatto esattamente il contrario, ovvero è sceso sulla terra ed è rimasto agganciato alla terra, da servo. Un servo che, come ci ricorda Isaia, è innanzitutto un discepolo, ovvero una persona che ha imparato cosa significa abitare la terra, che ha imparato cosa significhi vivere sulla terra, fra gli sfiduciati e i giorni che passano. Gesù, oltre ad essere il maestro, è anche il discepolo, colui che si è lasciato plasmare da Dio, che ha imparato come indirizzare una parola allo sfiduciato, essendo egli stesso Parola, facendo della Parola la sua carne. Ed è colui che ha ascoltato il Padre, colui che si è messo in ascolto del Padre e che ha riscoperto e attraversato la sofferenza, tutta la sofferenza umana. Una sofferenza che, nel cammino di discepolato, assume un nuovo significato, un nuovo contorno. Una sofferenza che attraversa il corpo, che percuote, che ferisce, che fa male, ma dinanzi a cui il volto diviene duro. Un volto che non si arrende alla sofferenza, che si abbandona a Dio, anche dinanzi all’abisso. Spesso, sentiamo parlare dell’affidamento della nostra sofferenza a dio, come se Dio fosse una morfina capace di attenuare il dolore. Ma affidare il dolore e la sofferenza a Dio non è cosa che si fa alla leggera, come non è questione che si può affrontare semplicemente con quattro paroline. Si tratta di abbandono, si tratta di affrontare un abisso difficile da digerire, si tratta di giungere ad una considerazione di sé stessi, della propria corporeità, del proprio volto e lì riscoprire, nel silenzio assordante della solitudine, la presenza di Dio. Una inquietudine che fa i conti con il dolore, che l’angoscia, con tratti di disperazione e di ingiustizia, di rabbia e di malinconia, di paura e violenza. Tutti tratti raccolti nella Passione del Signore, a cui il Signore non si è sottratto. Tratti in cui anche un gesto diviene tutto, in cui anche un’unzione, un uomo che aiuta a portare la croce, uno sguardo, un tentativo, un gesto diventano tutto, diventano il modo attraverso cui il Signore muore e muore da servo. Servizio che non ritiene un rapimento la condizione divina, che non lo ritiene un bene di cui disporre o qualcosa che può essere comprato, una proprietà privata, ma un servizio alle persone, un servizio affinché ogni nostro gesto possa essere teofania di una rivelazione di Dio che, oggi, entra a Gerusalemme. Gesti che rivelano la Gerusalemme nuova, anche all’interno delle nostre città, in cui la Passione di Gesù continua a vivere e vibrare.