Transizioni e fratture
Il tema discusso, durante il Festival di Architettura, sul rapporto fra progetto e democrazia, insieme all’Ordine degli Architetti di Pescara-Chieti è stato quello della transizione. Da più parti e in differenti modi sentiamo parlare di transizione. Transizione Ecologica, Energetica, Digitale, Economica, Sociale, Generazionale, di Genere, Geografica, Fisica, Chimica, Biologica, Urbanistica. Tutto sembra raccontare di un passaggio che non indica semplicemente un fine, che non è solo trasferimento o trasloco, ma passaggio stesso, da una forma ad un’altra. Transitare, infatti, ci riporta al passaggio stesso, all’attraversamento dei luoghi e ci costringe, quasi, a ripensare anche il nostro modo di vivere e vedere le città non in maniera statica ma come passaggio, processo, evoluzione. La transizione, dunque, sembra dirigere e governare anche le nostre democrazie e il concetto stesso di democrazia, rendendola, in qualche maniera, più fragile e meno compatta del passato. Ecco, allora, come la relazione fra progetto e democrazia, oggi, può essere letta e riletta attraverso una possibile lente di etica della transizione. In altri termini, mettere in dialettica progetto e democrazia, può aiutarci a sviluppare e approfondire una lente etica come la transizione. E per questa etica della transizione, abbiamo pensato a Michel de Certeau, il quale ci offre una riflessione sul tema del transitare come frattura e alterità. Transitare, allora, non significa solo trasferirsi o traslocare ma vivere, primariamente, una frattura, ingresso di una alterità nella vita. Ingresso di un altro che dice chi sono, che mi rimanda al come sono, che non mi impone il suo modo di essere, ma che mi spinge a riconoscermi per come sono e a riconoscermi persino e prima di tutto non come assoluto e totalizzante. L’altro, secondo de Certeau, è colui che mi dice chi sono, non in quanto essere parlante, in primis, ma semplicemente con il suo essere dinanzi a cui mi con-fronto e con cui anche vivo una tensione dialettica, un conflitto. L’etica della transizione, dunque, non presuppone una molla inclusività per cui tutto va bene senza distinzione, altrimenti rischieremmo di porre ogni cosa sotto la lente dell’identificazione. In altri termini, pensare che tutto vada bene, che tutto possa essere inclusivo senza conflitto, ci porta ad identificare l’altro con me o io a identificarmi con l’altro, in una palude in cui tutto è identico al tutto e tutto finisce per essere identico a me. Transizione, invece, implica anche il conflitto con l’alterità, implica la dialettica, implica o, forse meglio esplica, la mia frattura dinanzi alla poliedricità del reale. È questa l’eccezione preminente della democrazia che la differenzia dalla dittatura dell’indifferentismo. Una democrazia che è fatta di fratture e in cui è interessante scorgere e lavorare, in termini progettuali, proprio sulle fratture.
Sarebbe auspicabile un sequel: dalla transizione al transito! Dove frattura si fa la vita stessa. Dove la filosofia urbana supera l’etica. Oltre le quattro dimensioni, verso l’infinito. Ciao.