
L’Albero della vita
Es 3,1-8a.13-15; Sal 102; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
Tree of life, l’Albero della vita, è un’opera del 1985 di Keith Haring. Famosissimo in tutto il mondo per le sue opere semplici e immediate, per le sue figure che danzano e inneggiano alla vita in molti modi, Haring si è cimentato anche con un archetipo della nostra cultura: l’Albero della vita. Lo ritroviamo in molti modi e in molte forme: dalla pittura egizia a Klimt, dalla cultura assiro-babilonese ad Avatar, dalla mitologia nordica alla croce di Cristo, dal film l’Albero della vita alle opere dei Padri. È un simbolo estremamente ricorrente in quanto indica sia il supportare la vita sia l’appartenere tutti alla stessa vita, allo stesso albero. Il genere umano come colui che partecipa della stessa linfa vitale, di quella linfa che sostiene il mondo stesso. Questo è il messaggio simbolico dell’Albero della vita e che rivela il mistero stesso del vivere. In una pagina dei suoi Diari, Haring scrive: Penso che sia molto importante essere innamorati della vita. Ho incontrato persone che hanno settanta o ottant’anni e amano così tanto la vita, dietro la maschera dei loro corpi anziani, da far sparire i numeri. La vita è molto fragile e sempre elusiva. Appena pensiamo di “capire” c’è un altro mistero. Io non capisco nulla. Che è, io penso, la chiave per capire tutto. Questo è il senso dell’Albero della vita, lo scorgere nelle profondità delle righe e oltre i volti di chi ha vissuto, ancora un attaccamento alla vita, un anelito alla linfa vitale. Tutti come foglie di uno stesso albero, tutti come appartenenti al tutto dell’albero stesso. Questo è il significato dell’Albero della vita di Haring, in cui le figure, che è ciascuno di noi, è una foglia nell’immensità di questo albero, che ancora si danza e si muove nel vento. Una foglia che partecipa ad una vita più grande, ad un mistero che eccede ogni senso e ogni nostra precomprensione della vita. È quell’albero che non sfrutta il terreno, come quello del vangelo, ma quell’albero che ha ancora bisogno di conversione, di essere potato, arato, di cui ancora prendersene cura. È quell’albero che ci permette di non pensare che altri siano più peccatori di noi, che altri siano peggiori di noi perché hanno ricevuto una sorte peggiore della nostra. L’Albero della vita è la lente attraverso cui guardare la realtà, il modo attraverso cui ci rendiamo conto che tutti abbiamo bisogno di conversione, che tutti siano vittime e carnefici al tempo stesso, che non ci sono persone cattive ma persone a cui succedono cose brutte e che si incattiviscono, persone come potremmo essere noi. Questa è la profonda verità dell’Albero della vita, di quell’albero che ci fa accorgere che siamo tutti umani, tutti foglie di una vita che va ben oltre ciò che abbiamo ricevuto e per cui vale ancora la pena ringraziare. È quell’Albero della vita che si è rivelato nel roveto a Mosè, che ha trasformato il suo deserto in una terra bella e spaziosa in una terra dove scorre latte e miele. È quel Dio che dice di sé di essere ricordato come il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, quel Dio che ha una storia con il suo popolo, che ha fatto storia con ognuna delle sue foglie, che si ricorda di ognuno di noi e che chiama ciascuno di noi a costruire il suo popolo, a far parte del grande albero della vita. È quella consapevolezza di Paolo per cui tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale. Questo tutti che dice un vivere insieme, un camminare insieme, un fare delle esperienze insieme partecipando allo stesso mistero che è Cristo stesso. Dall’essere tutti sotto la nube all’essere tutti accompagnati da Cristo, abbeverati dalla roccia spirituale che è Cristo. La conversione, dunque, avviene nel momento in cui riconosciamo che non c’è nessun privilegio, non c’è nessuna differenza di merito fra me e un’altra persona, ma che tutti siamo in cammino, che tutti possiamo aiutarci, che tutti possiamo commettere errori e che dagli errori possiamo rinascere. In una società della prestazione, in una società in cui sembra di non poter mai sbagliare, ma occorre sempre essere attivi, dinamici e prestanti, rischiano di cadere anche noi dall’albero della vita, rischiamo anche noi di avvizzire in tante scadenze che non dicono più nulla alla nostra vita e della nostra vita. Per questo c’è bisogno ancora di conversione.