Contro i vampiri, da risorti

Contro i vampiri, da risorti

15 Febbraio 2025 0 di Makovec

Ger 17,5-8; Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26

Chi ha visto il film Nosferatu di Robert Eggers avrà potuto notare il principale rimando al Nosferatu del 1922, uno dei capolavori del cinema espressionista tedesco, ma anche una rivisitazione di Dracula di Bram Stoker di Coppola. Tutti film che nascono dal celebre romanzo Dracula dell’autore irlandese Bram Stoker, in cui ci viene offerta la forma di questo personaggio che attraversa le leggende popolari. Dracula o Nosferatu, infatti, sono varianti di questo personaggio che, allontanandosi da Dio e maledicendolo, non è né vivo né morto ma in una specie di ibrido fra le due parti, per cui deve nutrirsi di sangue pur di sopravvivere. Se Bram Stoker ha preso ispirazione per il suo Dracula da Vlad III Draculea, la storia di Nosferatu è leggermente differente ed è questa che vogliamo interrogare per la nostra riflessione. Alcuni fanno risalire l’etimologia di Nosferatu al greco “portatore di malattie” e, al contrario di Dracula, pur essendo un conte, un ricco, si mostra sempre deperito, con zanne da roditore al posto dei denti, con unghie lunghe, un corpo scheletrico e devastato dalla peste. Un personaggio che porta malattia in ogni luogo in cui si trova, che è capace solo di essere un appetito che devasta e sconvolge tutto. Fino a quando muore egli stesso grazie al sacrificio di una fanciulla che si dissangua pur di soddisfare quell’appetito. Il conte Orlok è un appetito che non si estingue mai, un appetito che trova fine solo con la fine delle altre persone, un appetito che contamina interiormente anche le città in cui si reca. Un personaggio che può sembrare lontano da noi, eppure è un personaggio che racconta anche il nostro modo di essere, alla luce della Parola. Geremia ci offre una scelta di fondo, da una parte un uomo maledetto in quanto confida nell’uomo, in quanto confida nella carne e dall’altra un uomo benedetto che confida nel Signore e pone nel Signore la sua fiducia. Da una parte un allontanamento da Dio che diviene appetito insaziabile, voracità che desertifica, devasta, rompe, spezza, estrae risorse come se succhiasse via il sangue dalle persone. Una sorta di vampirismo che manifesta non la maledizione di Dio nei nostri confronti, ma una maledizione che proviene dall’allontanamento da Dio, da un porsi in una distonia con tutti, scendendo nell’isolamento, nella morte, in una situazione dove c’è solo deserto e in cui facciamo deserto intorno a noi, sfruttando gli altri, pensando che il nostro vivere in un luogo dipenda solo dal nostro stare bene. Dall’altra parte, invece, l’essere umano benedetto da Dio che è radicato nei territori, che lavora non per estrarre risorse ma per una sostenibilità umana e ambientale. L’immagine del giusto come albero piantato lungo corsi d’acqua, che da frutti a suo tempo, è una immagine di bellezza, di contemplazione, di armonia ma anche di fragilità e sostenibilità. La benedizione di Dio significa riconoscersi parte di un tutto, così come papa Francesco ci ricorda nella Laudato si’. Far parte di un tutto significa riconoscere che siamo viventi in mezzo ad altri viventi, che tutto intorno a noi respira del nostro stesso respiro, che tutto influenza noi e che noi agiamo influenzando tutto ciò che ci circonda. Per questo vivere in un ambiente sano significa anche stare bene, come vivere in una città bella è anche il risultato della consapevolezza di tutti, che il mio vivere incide anche sulle altre persone, che io rischio di essere il portatore di malattie, il non morto e il non vivo della mia stessa città. Mentre noi non siamo chiamati ad essere vampiri di altre persone, ma a risorgere, siamo nella resurrezione di Cristo dai morti. Il che non significa che non moriamo e che non moriremo, ma significa affrontare la storia, il quotidiano, la società in un modo differente e in un’ottica differente. Significa riconoscere che siamo in una comunità e che questa comunità è riflesso della comunione con il Padre, nella resurrezione di Gesù e attraverso lo Spirito. La resurrezione di Cristo ci pone in una prospettiva altra, in una speranza che va oltre le morti che ci circondano, oltre la disperazione che rischia di affossare tutto di noi e tutti noi. E porre una speranza oltre significa riconoscersi in quella povertà che tende verso l’altro e verso l’Altro. Una povertà che ci vede camminare nelle Beatitudini che Gesù ci ha consegnato: in una costante tensione dalla realtà e dai contesti che viviamo oggi verso il futuro. Significa collaborare insieme alle altre persone, osare, anche sbagliare e anche accogliere le critiche, ricordarsi in poche parole di essere vivi e figli della resurrezione di Cristo. Mentre i ricchi descritti da Gesù assomigliano sempre più al conte Orlok o anche a Dracula, per cui nelle loro immense e numerose ricchezze, non riescono a trovare riposo e felicità. Vivono in castelli completamente isolati e deserti, strutture immense e lugubri perché pensano di bastare a se stessi e di decidere anche sulle sorti di intere popolazioni, spostandole a proprio piacimento. Sono come quei falsi profeti le cui promesse non si realizzano e che portano sempre e solo verso morte e distruzione, nonostante tutti dicessero bene di loro. Vampiri che portano con loro solo malattie e morte, solo bruttezza e isolamento, solo degrado e corruzione. Vampiri dinanzi a cui abbiamo ancora bisogno della luce della Parola per camminare da cui attingere linfa per pensarci e pensare il mondo in maniera sostenibile.