
Architetture criminali
Per continuare la nostra riflessione, ci sembra importante un affondo sulla relazione fra architettura e criminalità. Relazione di cui si è già occupata Adelaide Dinunzio, fotoreporter fra Colonia e Napoli. Nel suo libro Architetture criminali (Crowdbooks Italia 2020), si interessa di tutto l’immenso patrimonio architettonico che, in un modo o nell’altro, è stato toccato o creato dalla criminalità. Foto in bianco e nero che scorrono fra ville di estremo lusso abbandonato, confiscate ai boss, capannoni industriali mai finiti, fondamenta e plinti in cemento che non portano da nessuna parte. Un insieme di architetture orrende e invisibili che Adelaide Dinunzio ci riporta in vi(s)ta. Scrive nella sua presentazione del progetto fotografico: L’occhio umano si abitua all’orrore del degrado e della fatiscenza; lo sguardo, al primo impatto, inorridisce alla vista dell’edificio in disuso, del non finito abusivo o abbandonato, ma con il tempo questo diventerà invisibile. Ho voluto rendere questi scheletri del degrado urbanistico in monumenti magnifici, dei punti turistici della nostra Italia, in modo da renderli visibili e riporre in noi una riflessione profonda sul nostro territorio. Architetture lussuose oppure fatiscenti, tutte accomunate dall’abbandono e dal degrado non solo insisto in sé ma anche in relazione al territorio in cui insistono. Architetture abusive non solo in termini legali ma in quanto incapaci di dialogare con il territorio, anzi imposte quasi al territorio in cui vengono costruite. Architetture criminali che riscopriamo, così, essere abusive non nei confronti della legge in sé ma nei confronti dei territori. Architetture che invadono con la sterilità del cemento, con il lusso del privato, territori degradati in cui lo Stato non riesce a far valere le proprie ragioni ma soprattutto in cui manca la dimensione pubblica, la consapevolezza di essere cittadini e abitanti di un luogo. L’abusivismo cresce nell’indifferenza della maggioranza e se questo vale per le architetture vale anche per la criminalità. Degrado urbano e degrado umano camminano di pari passo, così come l’abusivismo nei territori cresce con la corrosione della dimensione pubblica, del concetto stesso di cittadinanza. Allora, il rendere visibili questi luoghi significa non solo informare i cittadini ma spingere ad una riflessione sulla forma che vogliamo dare e che possiamo dare ai nostri territori. Non si tratta solo di denunciare ma di annunciare un modo differente di abitare il territorio. In questo senso, allora, la salvezza dei territori non verrà dalle devastazioni criminali, come non verrà neanche dal bisogno di sicurezza individuale, dall’uso della forza e dell’ordine per reprimere la criminalità. La salvezza dei territori viene dai cittadini che desiderano abitare un luogo, dalla fondazione e rifondazione della città, dalla domanda se ha ancora senso o meno abitare un luogo e in che modo vogliamo abitarlo, come comunità. Fuori di questo c’è solo potere, indifferenza, meccanismi securitari, criminalità.
Una cartolina degli anni sessanta inquadra e valorizza un distributore di benzina con alle spalle un quartiere che oggi diremmo “ghetto”. Il paesaggio siamo noi a definirlo sulla base della cultura che abitiamo e dunque, in mancanza di una educazione alla bellezza, è difficile che la coscienza civile possa difenderla. Da “Drive in” in poi, i televisori di ogni locale pubblico e di molte abitazioni private si sono sintonizzati sul peggio, hanno lavorato intensamente per disinnescare la coscienza civile, “educandoci” scientificamente alla volgarità e all’orrore, mentre si alimentava una diffusa sfiducia verso la politica e l’idea che partecipare potesse incidere sul governo delle nostre Città. A radicalizzare il quadro sono poi intervenuti gli spacciatori di smartphone. Ora, il dominio dell’indifferenza ci lascia muti di fronte a molti scempi, fra i quali l’edilizia criminale si staglia come un’eccellenza. Che fare? Provare a lasciare la postazione della finestra, il giudizio altolocato e scendere in strada, accettando il rischio di essere bombardati.
Penso agli anni 60/70: le mani della malavita e del malaffare sulle città. Nessun piano urbanistico, disprezzo per le comunità con la costruzione di ghetti e la marginalizzazione degli ultimi indotti ad abbandonare i centri storici resi fatiscenti dall’incuria…
Condivido l’analisi e recito il mea culpa generazionale e personale
Il mio riferimento alla condivisione dell’analisi e’ da riferirsi al commento di Carlo Bruni
C’e’ un altra forma di architettura criminale ed e’ quella teorizzata e attuata dagli architetti.
Quartiere Zen a Palermo, Scampia a Napoli, Gallaratese a Milano, Laurentino a Roma sono stati progettati dal meglio dell’intelighenzia architettonica e decantati come esemplari.
Dovrebbe introdursi una prassi in uso in Svezia.
Chi progetta ed e’ responsabile di un quartiere di case popolari deve andarci a vivere per un lustro. Architetti, funzionari e politici.